In occasione del 40esimo anniversario di quello storico giorno, il consiglio comunale, all’unanimità con 35 voti favorevoli, ha approvato il 9 maggio il conferimento della cittadinanza benemerita alla squadra che per la prima volta cucì sulle maglie gialloblù lo scudetto tricolore
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IL FATTO QUOTIDIANO
Intervista a Tricella
Meraviglia Verona, 40 anni fa lo scudetto in provincia: “Bagnoli non urlava mai, il suo calcio aveva un
semplice segreto”. Il racconto di capitan Tricella
INTERVISTA – Il condottiero di quell’impresa unica nella nostra Serie A: “Le cosce di Briegel erano impressionanti. Dal ds Mascetti alla signora Carla che si occupava delle maglie, eravamo famiglia”

Quarant’anni fa: altro calcio, altro mondo, altra vita. Il 1985 è l’anno di “We are the World” e di Usa for Africa, della nomina di Michail Gorbacev alla guida del Pcus in Unione Sovietica, degli ultimi colpi di coda delle Brigate Rosse con l’omicidio dell’economista Ezio Tarantelli, della strage dell’Heysel con la morte di 39 persone, di cui 32 italiani, per gli incidenti scoppiati prima della finale di Coppa dei Campioni Juventus–Liverpool, del venerdì nero della lira, delle rivolte in Sudafrica contro l’apartheid. Il 12 maggio di questo 1985, il Verona, guidato da Osvaldo Bagnoli, conquista lo scudetto: per la prima volta, nel dopoguerra, in Serie A trionfa una squadra di provincia. Verona è una città splendida, ricca e nobiliare, ma è pur sempre provincia. I veneti sono stati in testa dall’inizio alla fine. Il 3-1 ottenuto nel primo turno, il 16 settembre 1984, nella domenica dell’esordio di Diego Armando Maradona con la maglia del Napoli, ha annunciato la splendida stagione gialloblù. Il Verona non è figlio di un exploit: è il prodotto finale dell’ascesa di un gruppo che ha conquistato la promozione nel 1982 e ha perso due finali di Coppa Italia, nel 1983 e nel 1984. Il puzzle di Bagnoli è migliorato di anno in anno: ai Garella, Di Gennaro, Fanna, Galderisi, Tricella, Volpati e Fontolan, si sono aggiunti, nell’estate 1984, due stranieri importanti: il tedescone Hans Pieter Briegel e l’attaccante danese Preben Elkjaer Larsen. Il Verona è un meccanismo perfetto: gioco essenziale, buona tecnica complessiva, tenuta fisica, carattere. Tra le grandi, solo l’Inter si oppone per qualche mese, poi i nerazzurri cedono e resta il Torino a contendere il titolo, ma il Verona ha una marcia in più e il 12 maggio l’1-1 in casa dell’Atalanta certifica il trionfo. Osvaldo Bagnoli, oggi novantenne e con la memoria vacillante, viene portato in trionfo. Il capitano di quel Verona, festeggiato allo stadio prima della partita contro il Lecce, fu, ed è, Roberto Tricella, 66 anni, originario di Cernusco sul Naviglio. Questa comunità a un passo da Milano, alla quale proprio nel 1985 il presidente Sandro Pertini conferì il titolo di città, ha dato i natali anche a Gaetano Scirea e a Roberto Galbiati. Tricella ha lasciato il mondo del calcio dopo la fine della carriera: si è dedicato all’attività immobiliare.
Scirea, Galbiati, Tricella: a Cernusco nacquero i migliori liberi del calcio anni Settanta e Ottanta.
L’oratorio di Cernusco fu una palestra formidabile. Pochi mezzi, ma molta fantasia. Ricordo le partite, i tornei, le maglie che ci passavamo da una gara all’altra, consumate e bagnate di sudore. Tempi eroici, ma come ha detto una volta Sacchetti, uno dei giocatori più importanti di quel Verona, “volevamo solo giocare a pallone”. Quando stavi sul campo ore e ore, lo facevi soprattutto per passione.
Descriviamo Osvaldo Bagnoli.
Ci trattava da uomini e questo responsabilizzava il gruppo. Osvaldo è una persona semplice, ma non stupida, al contrario. Il suo calcio era semplice e intelligente: linee verticali, pochi fronzoli, essenzialità, senza rinunciare, mai, alla ricerca del risultato. Diceva “il segreto è il gol fuori casa”. Il suo schema preferito era rilancio del portiere, rifinitura, tiro, tutto in pochi secondi. Era molto onesto con i giocatori. Dava la formazione a inizio campionato, ma seguiva con attenzione il lavoro settimanale di tutti ed era pronto a cambiare idea.
Un’immagine per descrivere quel Verona?
Ricorda l’Italia del mondiale 1978 in Argentina? Fu la grande sorpresa del torneo e mostrò uno splendido calcio. Il nostro Verona fu come quell’Italia.
Quanto incise la presenza di Briegel ed Elkjaer?
Diedero forza fisica ed esperienza internazionale. S’inserirono alla perfezione in un gruppo solido, dimostrando di essere non solo campioni, ma anche uomini di valore.
Bagnoli perdeva mai la pazienza?
Quando cominciava a grattarsi il naso, era un brutto segnale. Non alzava mai la voce, in sei anni trascorsi con lui capitò solo cinque o sei volte, ma quando lo faceva, era il richiamo della foresta. Sapeva gestire bene le situazioni. Quando le partite si complicavano, nell’intervallo ci rassicurava “tranquilli, prima o poi il gol lo facciamo”.
Come si relazionava con gli stranieri?
Cercava di farsi capire, ma ogni tanto parlava in dialetto e ripenso sempre alla faccia di Briegel: ci guardava con l’aria di chi non capisse un tubo.
Briegel era un armadio.
Ricordo quando si sdraiava sul lettino del massaggiatore: le cosce erano impressionanti. Ho visto solo un calciatore con gambe potenti come le sue: Sebino Nela. Quando facevano le ripetute, il mercoledì, noi andavamo al massimo e chiudevamo con la lingua di fuori, mentre Hans sembrava che passeggiasse.
La squadra più ostica di quell’annata?
Soffrivamo l’Inter, ci eliminò in Coppa Italia, ma in campionato la regolarità fu la nostra arma vincente.
I soprannomi di quel gruppo?
Volpati era Volpe. Bruni era Piso, Pisolo. Galderisi era Nanu.
Altre figure importanti di quel Verona?
Il massaggiatore, Francesco Stefani. Grande appassionato di ciclismo e un dono nascosto nelle mani. Emiliano Mascetti, un direttore sportivo di rara onestà: profondo conoscitore di calcio e di uomini. E poi l’azionista di maggioranza Ferdinando Chiampan, il ragionier Rangogni che teneva i conti, la signora Carla che si occupava delle nostre maglie, il magazziniere Manfrin detto Pista. Era davvero una famiglia.
Quarant’anni dopo, che cosa rappresenta quel Verona per il suo capitano?
Una storia meravigliosa e un profondo senso di appartenenza a una città che ci ha dato tanto.
LO SLALOM
I quarant’anni dello scudetto del Verona
Adesso che sono passati quarant’anni è arrivato il momento giusto per un contro-pensiero, una riflessione che vada in direzione ostinata a contraria alla lunga narrazione sullo scudetto più incredibile e miracoloso nella storia del calcio italiano. Incredibile e miracoloso non fu, dice Antonio Di Gennaro che lo vinse con la maglia numero 10. Il Verona campione d’Italia 1985 era avanti, molto avanti, nelle quotazioni dei bookmaker che al tempo intorno al calcio erano ancora clandestini. Quello scudetto avrebbe portato Di Gennaro a fare il regista della Nazionale ai Mondiali dell’anno dopo in Messico e stamattina su La Stampa scrive che “i miracoli, nel calcio, esistono. Il nostro non lo fu. Eravamo una squadra forte, unita, orgogliosa. Ed eravamo un gruppo di amici alla ricerca della felicità. Nel giorno che ci riporta tutti indietro nel tempo ci terrei, però, a sottolineare una cosa: il tricolore del 1985 costituì il punto più alto di un cammino cominciato anni prima. A quel 12 maggio di 40 anni fa arrivava una squadra al terzo anno di fila in Serie A, ma, soprattutto, con due quarti posti raggiunti nelle due stagioni precedenti. Oggi, quel traguardo avrebbe significato Champions League. Il nostro non fu un miracolo, fu una bella storia”.
Le ragioni, i motivi, le radici di quel successo sono ben raccontate nel libro Lo scudetto del Verona [Solferino], scritto da Paolo Condò con Adalberto Scemma: aneddoti e ricordi di una squadra che diventò irresistibile con l’innesto di Elkjaer e Briegel nell’estate in cui la serie A era abbagliata dagli arrivi di Socrates, Rummenigge e Maradona.
Il veronese [ma milanista] Giulio Nascimbeni sul Corriere della sera scrisse: “Verona è stupenda e prudente, nei verbi preferisce il condizionale all’indicativo, e il suo spirito sta racchiuso nel grande dialogo del balcone tra Giulietta e Romeo. È ancora notte o s’avvicina l’alba? L’uccello che canta è il segreto usignolo che sta nel buio o la solare allodola, araldo del mattino? Non è stata, dunque, la superba vigilia della sicurezza. Secoli di goldoniane sfumature, di brume, di nebbie si sono messi di traverso a contestare l’ottimismo. Il veneto non risponde mai bene a chi gli chiede come va la salute: risponde non c’è male o potrebbe andar peggio, come per azionare il freno, far scendere il tono della voce, indurre l’interlocutore a un minimo di compassione, anche se le gote splendono come il rosso d’un vino. Mi fa piacere che la mia città abbia vinto lo scudetto. Un po’ d’euforia cancella, almeno per questa settimana, le antiche ritrosie, l’antico «andar piano». Non amo gli slogan, ma stavolta devo proprio cedere: «Vero- nese è bello»”.
Il miracolo che miracolo non fu era abbastanza chiaro che si sarebbe compiuto sin dall’inverno. Il Verona era stato in testa dalla prima giornata, cominciando con una famosa vittoria contro il Napoli, in un anno nel quale la Juventus si fece prendere strada facendo dall’idea di dedicarsi alla Coppa dei Campioni.
Mario Sconcerti su Repubblica fece il controcanto alle sfumature goldoniane di Nascimbeni e scrisse: “Adesso che lo scudetto è ormai arrivato, il problema di Verona sembra quello di vivere civilmente il suo trionfo. “Evitare le piazzate” raccomandano tutti con chiari riferimenti allo scudetto romanista. A parte che sarà curioso vedere come ci riusciranno, ma obbligarsi a questo tipo di civiltà significa non aver capito il calcio. Il problema non è evitare la piazzate, ma evitare di imporle agli altri. Il peccato di Roma non fu occupare la città e travolgerla di tifo, ma il costringere l’Italia a commuoversi per questo evento. Per il resto il bello del calcio, di un gol, di uno scudetto sta proprio nell’autorizzazione all’entusiasmo che procura. Il diritto alla piazzata è una conquista, che dura settimane o anni e quando arriva va vissuto nel rispetto degli altri, ma senza troppa paura della vergogna”.
Emanuela Audisio chiamò al telefono una giovane insegnante che abitava fuori città, in provincia, e si sentì raccontare che «no, non sento suoni di clacson strepitosi. Successo della provincia? Non direi tanto. Noi Verona la consideriamo una città grande, tipo Milano: ha le vetrine più ricche, i negozi più cari, la roba più bella. Alcuni giorni fa sei allieve mi sono scappate di casa dopo aver bruciato la scuola. Dove crede siano andate? A Vicenza, a Venezia, a Padova? Ma no, a Verona. Per loro è la capitale. Me le ha riportate la questura, senza troppa fatica. Una di loro, già da tempo, si prostituiva».
Vista da vicino, vista da dentro, Verona era meno Verona di come veniva percepita fuori. “A Verona è difficile parcheggiare – scriveva Audisio – la storia ingombra le strade, le fa strette, il commercio le rende trafficate, la signora che dopo lenta e sofferta manovra sistema la sua auto sul marciapiede bloccando per venti minuti la strada, non raccoglie nemmeno un fischio. Qui si è pazienti, si fa finta di non vedere. Si bestemmia in silenzio”.
Gianni Brera invece celebrò a voce alto e con il suo incipit più classico: “In alto le bandiere e i canti per il Verona campione d’Italia! … Non aver alle spalle un grande passato è elemento che ancor più valorizza l’impresa compiuta quest’anno: ma certo la conquista di uno scudetto non è mai il prodotto del caso: in effetti il Verona veleggiava da quattro anni verso traguardi del tutto inconsueti. La sua ascesa, graduale e costante, si spiega con l’oculata misura dei dirigenti amministrativi (Guidotti e Chiampan), con l’intelligenza dei dirigenti tecnici (Mascetti e Bagnoli). Senza misura amministrativa è inutile l’intelligenza tecnica e senza intelligenza tecnica è inutile qualsiasi sforzo amministrativo, anche folle. Il calcio italiano è sciaguratamente avviato a una colossale bancarotta per incoscienza di molti presidenti di società e per palese insufficienza di norme giuridico-fiscali. Ora, fra gli incoscienti non rientrano certamente i veronesi e non per altro ho parlato di oculata misura. Ma la legge ferrea del calcio internazionale condanna a priori una squadra fondata sui miracoli del risparmio. La constatazione è fastidiosa e anticipa dispiaceri evitabili solo con la meditata perdita della misura di cui sopra”.
Così come la Lazio del ‘74 aveva vinto il suo primo storico scudetto nella domenica del referendum sul divorzio, il Verona ‘85 festeggiò il suo in un’altra giornata di elezioni, 45 milioni di italiani alle urne per le amministrative. Per uno scherzo del caso, quella mattina la Gazzetta dedicò la sua intervista extra-calcistica a Beppe Grillo. Era ancora soltanto un comico [Slalom ve la propone domani altrimenti oggi c’è troppo da leggere].
Candido Cannavò dedicò il suo editoriale a quell’incrocio sociale tra votazioni e scudetto. “L’Italia rinnova le sue amministrazioni locali, che sono quelle che più incidono sulla vita e sui problemi reali della gente. Lo sport non si ferma ma non interferisce, né ci distrae dinanzi al diritto-dovere che ciascuno di noi è chiamato ad esercitare. E chi pratica, segue e ama lo sport non si rifugia mai nell’astensione: sceglie, sulla base delle proprie idee e delle proprie convinzioni. La Gazzetta dedica oggi una pagina alle elezioni, ma l’unico invito è questo: andiamo a votare”.
È un editoriale che oggi farebbe di Cannavò un estremista. “C’è da augurarsi semmai – e saremo vigili in questo senso – che nelle nuove amministrazioni regionali, provinciali e comunali che verranno fuori dalla consultazione di oggi e domani, a prescindere dalle loro sigle, lo sport trovi spazio non a livello di facili proclami o di iniziative che buttano fumo negli occhi, ma nei programmi, nei finanziamenti, nei progetti. C’è da colmare il divario tra il nostro kolossal agonistico- organizzativo e le gravissime carenze dello sport di base, che deve essere aperto a tutti e che ha bisogno di impianti di facile gestione quotidiana, dei quali persino le grandi città sono prive o scarsamente fornite. E non parliamo delle “sacche” che tuttora permangono nel Sud. È giusto che lo sport dedichi un pensiero a questi problemi vitali, anche nel giorno in cui il romanzo del campionato vive la pagina che racchiude tutta la passionalità calcistica: quella dello scudetto. In tal senso, il nostro calcio ha già votato da tempo, e con piena coscienza, e con una autentica acclamazione nazionale, lo splendido Verona. È un verdetto popolare di cui la squadra di Bagnoli può andare fiera, prima ancora di conquistare l’ultimo punto”.
Nello stesso giorno il Veneto festeggiò il Petrarca Padova campione d’Italia nel rugby e la Fiorella Vicenza nel campionato femminile di basket. Cannavò scrisse al lunedì: “Ci sentiamo quasi disarmati, in tanti mesi di veronite acuta gli elogi sono pressoché esauriti”.
Lodovico Maradei, ancora sulla Gazzetta, considerò nella sua analisi che “lo svincolo, la riapertura delle frontiere, le sponsorizzazioni, si diceva, favoriranno sicuramente le società più potenti e aumenteranno il divario di valori tra metropoli e provincia. II Verona ha contraddetto e rassicurato un po’ tutti: si può vincere ancora usando la testa e non solo il portafogli. Infine ha trionfato una squadra guidata da un tecnico che non aveva esperienze di tale portata e una formazione che non vantava nelle sue file un mattatore come poteva essere considerato Riva per il Cagliari”.
Tre degli artefici di quell’Aida se ne andarono un minuto dopo. Garella, Fanna e Marangon annunciarono che avrebbero giocato per un’altra squadra appena i tappi di sughero saltarono dai colli delle bottiglie.
E se dopo quarant’anni abbiamo voglia di dar corpo a quelle figurine sfumate nel tempo, qui ci sono i giudizi di Brera, i suoi ritratti dei campioni per Repubblica.
“Fanna: è il tipico emigrante furlano. Ne ha scritte sul volto le profonde angosce e gli sforzi virili per superarle. Ha lasciato la famiglia a quattordici anni, come un singolare garzone di pedata. Ha imparato a Bergamo, non è riuscito a progredire in Juventus ed è stato dimesso perchè troppo emotivo e negato a goleare. Bagnoli l’ha reinventato jolly prodigioso: corre da una linea di fondo all’altra, batte con i due piedi: difende, imposta e rifinisce, raramente conclude. L’Inter lo vuole per sostenere il settimino Brady e crossare per Altobelli e Rummenigge. Bearzot lo vuole per la nazionale campione del mondo. Garella: volto intelligente e matto del cascatore specialista: stile inventato ogni volta, secondo coordinazione sbirolenta. Bagnoli dice: “Non credo alle rigenerazioni: se non era mica buono non usciva (dalla mediocrità)”. Quest’anno avrà parato cinquanta tiri-gol. Un miracolo che tenterà di rinnovare al Napoli. Un portiere non può farti vincere il campionato; però può fartelo perdere. Senza Garella, il Verona poteva finir male. Ferroni: molta sfortuna dopo un ottimo inizio. Visto poco o forse troppo (per esempio con il Torino in casa, quando fu pescato da dribbling risolutivi). Marangon I: tipo estremamente simpatico, pronto a chiedere l’apertura verso il suo out, che è il sinistro: l’Inter lo vuole per non rivedere le sue finte ali sinistre, arrivare all’estrema, fermarsi e poi voltarsi in dribbling per battere il cross con l’unico piede, il destro. Partite memorabili, non recenti. Piuttosto incolore nel finale. Tricella: della prodigiosa tribù cernuschina, madre di Scirea e Galbiati. Pronto a lanciarsi per dettare il disimpegno e costruire lungo: forse migliore in lui il costruttore che non il difensore. Possibilità di migliorare molto. Fontolan: recupero clamoroso di Bagnoli: acrobata insigne negli stacchi; lento nei gesti minimi; buon battitore. Tutti lo danno per milanese: è comasco di Garbagnate Rota. Volpati: si è sposato ieri (auguri) e si laureerà domani (maana) in Medicina: intanto gioca con spietato pragmatismo annichilendo l’ avversario marcato da lui e valorizzando il gioco di Di Gennaro, cui si offre per il passaggio sicuro (in quanto è bene smarcato). Secondo Bagnoli durerà ancora due anni. Ne ha trentaquattro. Di Gennaro: emulo di De Sisti ma con lancio lungo più forte e pulito. Bagnoli gli insegna i segreti del centrocampo, fondati sulla misura dinamica, cioè sul risparmio e sulla arcigna riconquista della palla. Sacchetti: cursore come Bruni, abile conduttore in TV: l’ho visto poco: difende bene e questo importa a Bagnoli. Briegel: è un armadio che i tedeschi facevano giocare terzino d’ala: Bagnoli lo inventa centrocampista: la sua resa è fenomenale: prepotenza atletica: ipertrofia crurale che rende sgraziato il suo correre e il suo tocco: sporca la palla ma con il sinistro cannoneggiata fortissimo e in acrobazia la fa da match-winner. Che più? Galderisi: l’è terron de caratter, dice Bagnoli, e persino menestrello: però si batte con un coraggio da leone: difende la palla come pochi: a me ricorda el Guarnieri de l’Ortiga, centravanti dell’Inter 1940: un nano prodigioso. Larsen: danesone estroverso, matt come on cavall (dice Bagnoli): falcata distesa da duecentista: tiro forte, specie con il destro. Lungo periodo di assenza per malanni contratti in nazionale. Diventerà anche acrobata, se si applica”.
LA VERITA’
VERONA 40
Lorenzo Fabiano Della Valdonega
Una bella giornata. È stato un onore condurre insieme ad un maestro come Adalberto Scemma l’incontro In Sala Arazzi per la consegna delle cittadinanze benemerite agli eroi del 1985, dal primo all’ultimo. Dal campo, all’ufficio fino al magazzino, quel Verona era davvero una famiglia parte di una comunità. Dopo tanti anni lo è ancora, e lo sarà sempre perché quella è la matrice. In un calcio dove le comunità, sebbene in taluni ambienti metropolitani inquinate da infiltrazioni pericolose, esistono ancora, ma le aziende e la finanza hanno preso il posto delle famiglie, il messaggio di quella storia è un portento. Ma anche un richiamo a meditare su cosa è diventato oggi il mondo del/nel pallone. Tornare indietro, a quando eravamo re, non si può, ma recuperare qualcosa di buono di quel passato, sì. Anzi, io credo sia proprio un dovere.

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