di Sara Perin

Ogni volta che entro in casa, mi trovo davanti alla gigantografia dell’epico scatto di Carlo Martini del 1952, in cui Fausto Coppi e Gino Bartali si scambiano una borraccia con i volti visibilmente stravolti e affaticati da quel caldissimo Tour de France. Quella foto fin da bambina mi ha affascinato e mi ha fatto capire che due atleti, per quando possano essere rivali (papà ciclista mi raccontava le vicende dei campioni) si aiutano sempre nel momento del bisogno, perché prima di essere sportivi sono uomini. Solo molti anni dopo ho scoperto che in realtà quello scatto è stato fatto su richiesta del fotografo: infatti Vito Liverani, proprietario dell’agenzia Omega Fotocronache, per cui lavorava Carlo Martini, dichiarerà: “c’è poco di misterioso perché quella foto è stata creata: Martini si mise d’accordo con i due corridori e col direttore di gara per scattarla, diede una bottiglia a un suo amico e gli disse di dargliela quando passavano. A quei tempi noi fotografi ci tenevamo molto ad avere immagini diverse da tutte le altre.” Si dice però che la scena sia capitata nella tappa precedente, ma non essendo riuscito ad immortalarla, il fotografo abbia chiesto di replicarla. La verità non si saprà mai. Ero convinta di trovare la descrizione di questa scena leggendo “Coppi e il diavolo” di Gianni Brera, magari con un’esaltazione del gesto solidale tra i due eterni rivali, e invece niente, neanche un accenno; mi sono presto resa conto che el Gioann era troppo assorto a scrivere di vere gesta eroiche per dar voce a questo pettegolezzo. Ho sempre conosciuto la grandezza di Fausto Coppi, le sue infinite vittorie e i suoi scatti nelle Dolomiti al Giro d’Italia, il suo costante duello con Bartali e la sua sfrenata sete di vittoria: leggere queste pagine però mi ha restituito un’immagine molto più umana del campione, mi è parso un uomo con dei difetti, con delle battaglie interiori e a volte anche in difficoltà, tra le numerose fratture e la morte del fratello Serse. Brera è riuscito a esaltare la grandezza del Campionissimo sottolineando le sue debolezze, “il suo sterno da pollo, il collo corto, le spalle taccàa su e due piedoni che paiono pinne di foca”. Dalla nascita umile a Castellania e l’infanzia povera ma felice, 1al trasferimento a Novi Ligure e la professione già designata del salumiere, si coglie una descrizione talmente ricca di particolari e aneddoti che con la mente si può ricreare il paesaggio, la vita contadina e le sensazioni del ragazzo, come se fossero vissute in prima persona. Proseguendo con il racconto poi, si percepiscono lo sforzo e i numerosi sacrifici di Fausto, si sentono i denti stretti e la respirazione si affatica, si sente il quadricipite fare forza e poi il sollievo quando si attraversa il traguardo. È un racconto ricco di emozioni, di riflessioni e di particolari che riescono a mantenere vivo l’interesse del lettore, che appunto sale egli stesso nella bicicletta per ripercorrere tutte le salite, gli scollinamenti e le volate del Campionissimo. È un libro di sport, senza dubbio, ma allo stesso tempo racchiude delle riflessioni esistenziali e sociali che sono sempre valide, che uniscono con un filo rosso il destino dell’atleta a quello di tutta l’umanità. Quando Brera scrive: “il tragico destino degli italiani è che i loro drammi più acuti degradano quasi sempre nel grottesco, primo indubitabile sintomo di una leggerezza che è anche e soprattutto stupidità”, sta sicuramente parlando dell’ingiusta morte di Fausto, ma si sta anche 2riferendo a una serie di dinamiche che nel nostro Paese rimangono attuali. La grandezza dell’autore sta nel celare riflessioni acute e profonde dietro a parole semplici, che offrono il loro vero significato solamente a chi ha l’accuratezza di coglierlo. Il profilo psicologico del campione si delinea lungo tutto il racconto; nel descriverlo, si vede quanto Brera fosse empaticamente vicino a Fausto, senza però essere mai eccessivo o inopportuno nel raccontare la sua vita privata: affronta la relazione con la dama bianca come un giudice imparziale, con un occhio amico e l’altro critico, senza però sconfinare mai nel gossip e nel pettegolezzo. Fausto ci appare come ognuno di noi, con alti e bassi, con dubbi e perplessità che l’autore non esita a esporci, ma allo stesso tempo ci mostra come “la bicicletta divenne parte di lui e delle sue ossa sbilenche” e come questo binomio improbabile fosse in grado di annullare 3Coppi e il diavolo, pag. 43 1 Coppi e il diavolo, pag. 156 2 Coppi e il diavolo, pag. 43 3 ogni preoccupazione e di fargli tornare quella grinta sportiva che gli è sempre stata attribuita, anche durante il periodo della guerra. Brera, tratteggiando le gesta del Campionissimo, non dimentica di descrivere la società del momento, rendendo così sempre più vera la sua narrazione: non a caso infatti cita il caso di Wilma Montesi, il doping di tutti i giorni (allora lecito), descrive le scene di caccia, nomina i ciclisti dell’epoca, rappresenta la situazione durante la guerra e la difficoltà dei contratti per i ciclisti, per permettere al lettore di leggere il racconto sotto una luce più ampia che garantisce uno sguardo critico più competente. Concludendo, credo che questo libro omaggi in modo autorevole ma allo stesso tempo umile la figura di Fausto Coppi, che ha saputo trarre il meglio dalla sua nascita contadina e fare del suo fisico sbilenco la sua più grande fortuna, raggiungendo così innumerevoli traguardi; dietro al racconto si nasconde la personalità sia dell’autore sia del campione, che a tratti emergono per guidare la riflessione del lettore verso una dimensione umana e sociale, intrecciando valori sportivi con la realtà quotidiana in un modo che solo Brera poteva elaborare.

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